La scuola è iniziata da poco.
Proviamo a ritornare un po’ tutti e tutte sui banchi per imparare
qualche lezione di convivialità e l’ABC del linguaggio inclusivo.
Ormai abbiamo fatto il callo a
linguaggi che non aiutano a percorre la via dell’integrazione tra i
popoli. Grazie anche ai mass media. Basti pensare a come viene
descritta l’Africa. Qualche esempio.
A come Africa: una miniera di culture,
popoli, ricchezze naturali; vi vivono un miliardo di persone; la
parola, però, è usata spesso come sinonimo di miseria e povertà;
per descrivere un degrado, si dice «come in Africa».
B come benessere: esperienza quotidiana
che diverse popolazioni africane hanno declinato come possibilità di
“essere-bene”; definizione rara nelle terre del profitto ad
ogni costo. Perché non pensare all’Africa come a una vera
occasione per imparare nuovamente come “essere-bene”?
C come colore. Ne è colpito chi visita
una qualsiasi parte dell’Africa; la parola è usata invece per
definire una persona nera. Forse una via di mezzo tra negro e
terzomondiale? E se si provasse a dire semplicemente uomo, donna,
bambino, a prescindere dal colore epidermico?
D come dibattito. In Africa lo si usa
per raggiungere un accordo; da noi, invece, anima tavole rotonde e
convegni in cui si discute “di loro”, dell’immigrazione, dei
problemi dell’Africa, delle donne africane; dibattiti in cui il
protagonista non c’è, o è spettatore muto.
E come emergenza. Spesso questa parola
fa parte della vita del continente, ma è anche la sola leva che dà
diritto all’Africa di avere un suo spazio nei media.
F come fotografia. L’Africa viene
giornalmente offesa a mezzo stampa. Le foto belle del continente
riguardano paesaggi, flora, fauna… Ma come sono raffigurati i
bimbi, le donne e i popoli? Prostrati, affamati o in guerra. A fin
di bene, certo. Ma è solo così che sì può descrivere la
straordinaria umanità del continente? Pubblicherei simili foto, se
il soggetto raffigurato fosse mio fratello, mia madre, mia sorella? O
l’Africa è per noi ancora un ammasso di “corpi” senza
identità?
G come giacimenti. Di petrolio, coltan,
oro, diamanti… L’Africa ne è piena. Ma scegliamo di definirla
come alla lettera “P”.
H come harambee, termine swahili per
dire “l’unione fa la forza”; non sempre onorato dai politici
africani, ma non per questo da accantonare. Oggi che abbiamo smarrito
il senso del bene comune, ci può solo far bene lasciarci riscaldare
da questo sogno. Africano.
I come immigrazione: diritto
fondamentale, pratica antica quanto il mondo, via di salvezza e di
sopravvivenza; questo e altro ha significato per tutti i popoli del
mondo. Oggi che è il turno dei popoli d’Africa, la parola è
diventata la madre di tutti i guai dell’Occidente.
L come lei: pronome personale di
cortesia, secondo il vocabolario italiano; si può usare anche
rivolgendosi a un immigrato.
M come Miriam Makeba: un nome, una
vita, una donna d’Africa. Il giorno della sua morte (Castel
Volturno, 10 novembre 2008), dissi a una persona che ama definirsi
innamorata dell’Africa: «Oh mio Dio, è morta la Makeba!».
Risposta: «E chi è?».
N come nero o negro. Black is
beautiful, si diceva una volta; oggi il termine è sinonimo di
catastrofi. I giornali ne abusano. Traffico in tilt: “bollino
nero”. Borse in caduta libera: “venerdì nero”. E poi si
disquisisce se chiamare gli africani neri o negri.
O come oblio: parola che dice alla
perfezione il destino della storia d’Africa nei libri di scuola dei
paesi che hanno scorazzato in lungo e in largo nel continente.
P come povera: termine classicamente
abbinato all’Africa; al punto che, se uno tenta di elencarne le
ricchezze, chi lo sente pensa che stia parlando dell’America.
Q come qualunquismo: modo in cui si
parla dell’Africa. «In Africa si fa così», senza specificare
paese, cultura, etnia.
R come rimesse: quelle che gli
immigrati inviano a casa ogni mese, e che superano di molto le sempre
più piccole cifre messe a disposizione della cooperazione allo
sviluppo.
S come sorella, suora. Fateci caso:
quando qualcuno dice “sorellina” o “suorina”, si può star
certi che si sta riferendo a una religiosa africana, non importa se
giovane o anziana.
T come tribù. In antropologia il
termine è usato per i popoli “primitivi” di tutto il mondo; oggi
rimanda subito all’Africa: tutto ciò che vi accade, in bene o in
male, è letto alla luce di questo concetto. Guerre, culture, riti,
usi, costumi... in Africa sono sempre tribali; come se nel continente
non esistessero gruppi etnici.
U come ubuntu: dall’etimo “-ntu”
presente in tutte le lingue bantu, che significa “essere umano”;
il prefisso “u-“ indica astrazione, quindi “umanità”, ma
anche “benevolenza verso il prossimo”. È una regola di vita,
basata sulla compassione e il rispetto dell’altro; esorta a
prendere coscienza dei diritti e dei doveri. In Europa è diventato
il nome di un software libero.
V come voce. Molti si definiscono
“voce di chi non ha voce”. Per troppi l’Africa è afona, o
almeno roca. Davvero? E se invece di farsi suoi interpreti, le
lasciassimo un po’ di spazio?
Z come zulu: nobile etnia sudafricana;
termine talora usato in modo spregiativo: «Sei proprio uno zulu».
Tratto da Nigrizia (Ottobre 2011)